di Piervincenzo Di Terlizzi
L’estate scolastica non è mai, come sa bene chi ci lavora, davvero una pausa. È piuttosto un tempo diverso, dilatato, più poroso. Un tempo che somiglia più a una soglia che a una sospensione: si è fuori dai ritmi intensi della didattica quotidiana, ma immersi – spesso più a fondo – nei pensieri di ciò che la scuola è e di ciò che può diventare.
Sono settimane in cui il silenzio dei corridoi amplifica ciò che è rimasto sospeso. Tornano alla mente discussioni accese in sede di scrutinio, riflessioni sul senso della valutazione, sugli effetti – talvolta collaterali – degli esami di Stato. Ma è proprio questo il momento in cui quei pensieri, lasciati sedimentare, trovano lo spazio per maturare, davvero.
Chi dirige una scuola, chi lavora in una scuola, sa che d’estate non si smette di lavorare. Le segreterie continuano ad animarsi, ogni giorno, di pratiche e richieste. Dietro ogni pratica, una storia. Dietro ogni domanda, una famiglia, un’incertezza, un progetto da riallacciare. E poi ci siamo noi, i dirigenti, che in questa stagione abbiamo un compito meno visibile, ma forse il più importante: pensare (non: decidere da soli, ma, appunto: pensare).
Progettare un nuovo anno scolastico non significa semplicemente “riempire un calendario” o “scrivere un documento”. Significa cercare un senso nuovo per ciò che già si fa, affinare lo sguardo su ciò che è urgente cambiare, su ciò che è necessario mantenere. Significa interpretare i segnali deboli che arrivano dalle classi: il disagio sommerso, la demotivazione, ma anche i germogli di autonomia e di responsabilità che, se accolti, possono crescere.
Quest’estate, come le ultime, ci ha lasciato in eredità interrogativi importanti. Come valutiamo davvero? Come prepariamo i nostri studenti a un esame di Stato che sia occasione educativa, e non prova di resistenza? E ancora: quale equilibrio possibile tra mondo digitale e relazioni educative? Quanto tempo abbiamo dedicato, nel corso dell’anno, a insegnare l’uso consapevole delle tecnologie e non solo la loro applicazione tecnica? Quanto abbiamo fatto “comunità” (che non significa “vogliamoci bene” per nascondere le difficoltà, significa chiamarle per nome).
Sono nodi che non si sciolgono in fretta. E forse il tempo lento dell’estate serve proprio a questo: a sostare accanto ai problemi senza illuderci di risolverli subito. A farli respirare. A lasciarci interrogare.
Ci sono ore d’agosto in cui la scuola sembra ferma, immobile. Ma è proprio in quelle ore che nasce l’idea per un nuovo corso di approfondimento, che si rilegge un passaggio di normativa con occhi diversi, che si scrive la bozza di un progetto che parlerà ai ragazzi fra sei mesi. È in quel tempo apparentemente vuoto che si matura l’idea di un’assemblea diversa, di una comunicazione più onesta, di un’alleanza più vera tra adulti educanti.
Il tempo lento dell’estate è un tempo di responsabilità. Non c’è fretta, ma c’è cura. Non ci sono scadenze immediate, ma ci sono decisioni da preparare con attenzione. È il tempo in cui la scuola riflette su se stessa, perché possa poi riaccendersi – a settembre – con coerenza, e non solo con energia.
È il tempo in cui la scuola diventa, davvero, adulta.